mercoledì 14 marzo 2018

Dodî lî wa’anî lô ’anî ledodî wedodî lî.... E ho detto tutto!


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Salvador Dalì, Cantico dei Cantici

Il mio amato è mio e io sono sua.
Dodî lî wa’anî lô ’anî ledodî wedodî lî.

«Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici»: queste parole sono pronunziate da uno dei personaggi de L’uomo senza qualità, il capolavoro di Robert Musil, lo scrittore austriaco morto nel 1942, grande testimone della crisi europea del Novecento. Esse esprimono l’ammirazione incondizionata che ha goduto questo libretto biblico di sole 1250 parole ebraiche. Un poemetto che ha meritato appunto il titolo di Shir hasshirimCantico dei cantici, un modo semitico per esprimere il superlativo: il “cantico” per eccellenza, il “canto sublime” dell’amore e della vita.
Il massimo teologo protestante del Novecento, Karl Barth, non aveva esitato a definire questo scritto «la magna charta dell’umanità». Eppure questa «charta» del nostro essere uomini capaci di amare, di godere ma anche di soffrire, non è sempre stata letta in modo uniforme perché le sue sfaccettature sono molteplici e variegate come quelle di una pietra preziosa. Sembra aver ragione un antico rabbino, Saadia ben Joseph (882-942), il quale comparava il Cantico a una serratura di cui si è persa la chiave: per aprirla si devono moltiplicare i tentativi.
La chiave indispensabile per schiudere questo scrigno è, però, come spesso accade, la più immediata. Per comprendere il senso fondamentale di questo libro in cui Dio parla il linguaggio degli innamorati, è necessario usare la chiave delle sue parole poetiche, cioè di quello che un tempo si era soliti definire il senso letterale. Infatti l’opera raccoglie il gioioso dialogo di due persone che si amano, che si chiamano per 31 volte dodî, “amato mio”, un vezzeggiativo molto simile a quei nomignoli che gli innamorati si coniano segretamente per interpellarsi.
Nel Cantico la donna e l’uomo trovano tutta la freschezza e l’intensità di una relazione che essi stessi vivono e sperimentano attraverso l’eterno miracolo dell’amore. È una relazione intima e personale, costruita sui pronomi personali e sui possessivi di prima e seconda persona: «mio/tuo», «io/tu». La sigla spirituale e “musicale” del Cantico è in quella folgorante esclamazione della donna: dodî lî wa’anî lô, «il mio amato è mio e io sono sua» (2, 16). Esclamazione reiterata e variata in 6, 3: ’anî ledodî wedodî lî, «io sono del mio amato e il mio amato è mio». È la formula della pura reciprocità, della mutua appartenenza, della donazione vicendevole e senza riserve.
Questa perfetta intimità passa attraverso tre gradi. Conosce la bipolarità sessuale che è vista come “immagine” di Dio e realtà «molto buona/bella», secondo la Genesi (1, 27 e 31), cioè rappresentazione viva del Creatore attraverso la capacità generativa e di amore della coppia. Ma la sessualità da sola è meramente fisica. L’uomo può salire a un grado superiore intuendo nel sesso l’eros, cioè il fascino della bellezza, l’estetica del corpo, l’armonia della creatura, la tenerezza dei sentimenti. Con l’eros, però, i due esseri restano ancora un po’ “oggetto”, esterni l’uno all’altro.
È solo con la terza tappa, quella dell’amore, che scatta la comunione umana piena che illumina e trasfigura sessualità ed eros. E sono soltanto la donna e l’uomo fra tutti gli esseri viventi che possono percorrere tutte queste tappe giungendo alla perfezione dell’intimità, del dialogo, della donazione d’amore totale.
Il primo piano di lettura che dobbiamo adottare per percorrere questo incantevole spartito poetico è, dunque, quello nuziale, naturalmente con tutti i colori e i simboli dell’oriente. Nel 1873 il console di Prussia a Damasco, Johann Gottfried Wetzstein, aveva tentato di confrontare le cerimonie nuziali dei beduini e dei contadini siriani con quelle che sono citate nel Cantico: feste di sette giorni, incoronazione dello sposo e della sposa col titolo di re e di regina (nel Cantico l’amato è talora identificato col re Salomone); il tavolo nuziale detto “trono”, la danza dei “due campi” (vedi 7, 1), inni descrittivi della bellezza fisica della sposa e della potenza dello sposo.
Nel Cantico è in scena, quindi, l’amore tenero, “primaverile”, presente non solo nella coppia bella di due giovani innamorati ma, potremmo dire, anche nell’immutata tenerezza di una coppia anziana ancora innamorata. Un primato è assegnato soprattutto alla femminilità perché nel Cantico la donna è più protagonista dell’uomo, nonostante il sedimentato maschilismo dell’oriente da cui l’opera proviene.
Significativa per il nostro tema è l’attenzione riservata al volto dei due innamorati. Certo, tutto il corpo — inteso come segno di comunicazione — è coinvolto nel poema: ci sono le braccia, la mano e le dita, il cuore, il seno, il ventre, i fianchi, l’ombelico, le gambe, i piedi, le carezze, la pelle scura. Ma centrale è il volto, descritto in tutti i suoi tratti: dal capo al collo, dalle guance agli occhi, dalla bocca alle labbra, dal palato ai denti, dai capelli fino ai riccioli. È il volto il segno più vivo e autentico del dialogo, dell’incontro, della comunione di vita, pensiero e sentimento.
Il Cantico è, poi, un inno continuo alla gioia di vivere: quando il cielo è spento dalle nuvole — scriveva Paul Claudel — la superficie di un lago è piatta e metallica; quando brilla il sole essa si trasforma in uno specchio mirabile delle tinte del cielo e della terra. Così, infatti, è della vita dell’uomo quando si accende l’amore: il panorama è sempre lo stesso, il lavoro è sempre monotono e alienante, le città anonime e fredde, i giorni identici l’un l’altro; eppure l’amore tutto trasfigura e allora si ama e si vede tutto con occhi diversi perché l’uomo sa che alla sera incontrerà la sua donna.
L’amore umano, però, conosce anche la crisi, l’assenza, la paura, il silenzio, la solitudine. Ci sono nel Cantico due scene notturne (3, 1-5 e 5, 2 - 6, 3) piene di tensione in cui l’uomo e la sua donna sono lontani e si cercano disperatamente senza ritrovarsi. L’apice del poema biblico è in 8, 6 ove si mette in tensione dialettica amore e morte: «Potente come la morte è amore, / inesorabile come gli inferi la passione: / le sue scintille sono scintille ardenti, / una fiamma del Signore» (curiosamente è l’unico verso del Cantico in cui risuoni il nome divino Jah/Jhwh). In quel duello estremo il poeta sacro è certo che l’amore debba prevalere, come Dio è vincitore della morte e del male.
Il Cantico è, quindi, prima di tutto la celebrazione dell’amore umano e del matrimonio. Tuttavia, in questo amore il poeta biblico intravede quasi un seme dell’amore eterno e perfetto con cui Dio ama la sua creatura. Non dimentichiamo, infatti, che già il profeta Osea nell’viii secolo prima dell’era cristiana, aveva usato la sua drammatica esperienza matrimoniale e familiare trasformandola in una parabola dell’amore di Dio per il suo popolo Israele (Osea, 1-3). Questa trasmutazione tematico-simbolica appare implicitamente anche nel Cantico.
All’interno dell’amore umano — e non prescindendo da esso, come si è fatto invece nella cosiddetta lettura “allegorica” che ha ridotto il Cantico a una larva spiritualeggiante — dobbiamo cogliere un segno ulteriore, quello dell’amore trascendente di Dio per la sua creatura. È il secondo livello interpretativo attraverso il quale il Cantico è diventato anche il testo della mistica cristiana: citiamo solo i Pensieri sull’amore di Dio di santa Teresa d’Avila e quel capolavoro letterario e mistico che è il Cantico spirituale di san Giovanni della Croce, che si alimentano al Cantico dei cantici.
La rappresentazione plastica più famosa di questo intreccio spirituale potrebbe essere l’Estasi di santa Teresa del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria: un angelo lancia la freccia dell’amore divino verso la santa che è immersa in un’estasi fisica e interiore di altissima intensità, spirituale e sensuale. La vergine amante si abbandona a Dio attraverso un amore incandescente che pervade tutto l’essere, anche fisico.
È, questo, tra l’altro un filo tematico che corre nella stessa Bibbia: oltre ai già citati capitoli 1-3 del profeta Osea, si leggano il capitolo 16 del profeta Ezechiele, certe tenerissime pagine di Isaia (54, 1-8 e 61, 10-62, 5), e anche l’appello che Paolo ha indirizzato agli Efesini: «I mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, perché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (5, 28-32).
Ma nella Bibbia il testo che maggiormente fa risplendere la meraviglia dell’amore umano e il suo valore di segno teologico è proprio il Cantico. Dio, infatti, come insegna la prima lettera di san Giovanni, «è amore». Un antico testo giudaico commentava così il viaggio di Israele nel deserto del Sinai: «Il Signore venne dal Sinai per accogliere Israele come un fidanzato va incontro alla sua fidanzata, come uno sposo abbraccia la sua sposa».
Il Cantico, quindi, deve accompagnare gli innamorati nelle tappe oscure e serene, nel riso e nelle lacrime di quella stupenda vicenda che è il loro amore. Ma il Cantico è nella sua meta terminale la figura suprema dell’amore tra Dio e la sua creatura, per cui esso diventa un testo capitale soprattutto per tutti i credenti. Perciò, aveva ragione il grande scrittore cristiano del iii secolo Origene di Alessandria quando scriveva: «Beato chi comprende e canta i cantici delle Sacre Scritture! Ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei cantici
Gianfranco Ravasi