sabato 3 marzo 2018

La maternità come risorsa economica




(Marie-Lucile Kubacki) All’origine di tutta la storia c’è il crollo delle curve di natalità. L’inquinamento atmosferico ha reso sterile gran parte delle donne, ma anche degli uomini, sebbene la colpa venga ampiamente addossata alle donne. Nei reparti maternità regna un silenzio di morte. A volte si sente il vagito di un neonato, ma tutti sanno che le sue possibilità di sopravvivere sono comunque esigue. A volte una giovane madre che ha appena perso il proprio bambino, udendo il pianto di un altro neonato, precipita nella follia. Mentre nella società cresce il senso di angoscia, un gruppo di fondamentalisti di “ricostruzione cristiana” si mette a sognare un mondo nuovo, Gilead, fondato su rigidi valori morali stabiliti a partire da una lettura fondamentalista travisata della Bibbia. Questo mondo nuovo, i Figli di Giacobbe, lo costruiscono attraverso un sistema perverso in cui coppie di padroni, nelle cui mani sono concentrati il potere e le ricchezze, assumono delle schiave, e in particolari delle madri surrogate, le famose Ancelle, vestite di rosso. Sono ragazze a cui viene imposto di redimersi operando per il bene comune, a cui, in definitiva, viene proposta la salvezza con una pistola puntata alla tempia. Invece che un’utopia, Gilead è un totalitarismo, dunque un vero inferno, ben lungi da un inizio di paradiso.
Negli Stati Uniti Il racconto dell’ancella è divenuto un fenomeno culturale e politico tale da trasformare il romanzo in un manifesto. Donne vestite di rosso lo brandiscono nelle manifestazioni. La serie basata sul romanzo e trasmessa nel 2017 su una piattaforma americana ha riscosso un tale successo internazionale da far razzia di ben cinque riconoscimenti ai celebri Emmy Awards. Un entusiasmo incredibile per questo romanzo pubblicato nel 1985 da Margaret Atwood, la scrittrice specializzata nel genere distopico. E, fatte poche eccezioni, la serie è rimasta abbastanza fedele al romanzo.
La storia, molto lugubre e violenta nel romanzo, ma ancor di più nelle immagini della serie televisiva, viene raccontata dal punto di vista di June, una delle madri surrogate, che trova la forza di affrontare la sua condizione di serva richiamando alla mente i ricordi della sua vita precedente al rapimento e alla riduzione in schiavitù, quando era sposata con un uomo che amava e con il quale aveva avuto una figlia. June lavora presso i Waterford. Non si chiama più June ma Difred, proprietà di Fred Waterford. Ogni mese deve subire uno stupro nella camera matrimoniale, dopo un rituale segnato dalla lettura del racconto biblico della storia di Sara che, non potendo avere figli, offre la sua serva Agar allo sposo Abramo. E poiché il regime decima meticolosamente i preti e i pastori, le voci pronte a levarsi contro questa lettura delirante dei testi religiosi sono ormai poche. Alcune donne, ed è questo forse l’aspetto più agghiacciante, sono complici del sistema che asservisce le loro simili. È il caso di Serena Joy, la “padrona” di June. Brizzolata nel libro, bionda hitchcockiana nella serie, ma pur sempre machiavellica, ha scritto un saggio sulla fecondità come ricchezza economica reale di uno stato. Con quel saggio, Serena Joy ha concettualizzato l’utopia politico-economica di Gilead, fornendo una pseudo-giustificazione umanistica e spirituale alla tratta umana. Ma ha anche tessuto la tela in cui ora si dibatte. Perché a Gilead le donne come Serena Joy Waterford, mogli di alti funzionari, esistono solo per la loro capacità di mettere al mondo un figlio, con qualunque mezzo. Al pari delle serve, non hanno accesso ai libri. Le prime, se non incinte, vivono sotto la minaccia di essere inviate nelle Colonie, spazi post-apocalittici, per raccogliere scorie radioattive a mani nude. Se incinte, vengono trattate come animali da concorso. La loro alimentazione è rigidamente controllata, come del resto nelle cliniche delle madri surrogate che esistono già in diverse parti del mondo. Partoriscono sulle ginocchia delle loro padrone, che, in una parodia tragica, imitano i loro ansiti, le loro spinte in tempo reale, per recuperare il neonato alla fine del parto e poi prendere subito il posto della partoriente nel letto. La serva vede il suo bambino solo per qualche settimana, il tempo di svezzarlo dopo averlo allattato, poi viene consegnata a un’altra coppia in attesa di un figlio.
In modo estremo, la serie affronta il legame tra maternità surrogata e tratta umana: la madre surrogata, in questa transazione, può forse essere considerata qualcosa di diverso da un oggetto? E che ne è del bambino? Sintomaticamente, a Gilead, i bambini sono tanto silenziosi quanto sono stati desiderati. Li si esibisce, ma non li si guarda veramente e li si ascolta ancor meno. I dirigenti assicurano che avranno una vita bella, comoda e piena di opportunità. Tutti parlano per loro ma nessuno pensa di dare loro la parola. Le madri surrogate non hanno il diritto di lasciarsi andare alla tristezza perché l’hanno fatto, per così dire, in nome del bene: le loro emozioni devo essere inibite.
Eppure le emozioni montano in loro come la lava in un vulcano pronto a esplodere: strazio durante la gravidanza al pensiero che il bambino che portano in grembo sarà strappato loro alla nascita, angoscia al pensiero della separazione. Immagine speculare di questa sofferenza è il malessere di quante ricorrono a una madre surrogata tra gratitudine e risentimento. Quest’ultima, poiché “portatrice”, madre non lo è già più: la transazione infatti spezza il legame di forza. Ufficialmente le serve sono motivo di orgoglio nazionale per Gilead. Ma in realtà sono solo una risorsa economica che i dirigenti — con grande cinismo — commercializzano con altri paesi a loro volta colpiti dalla crisi della natalità. Sono un mercato. La loro vita è uno strumento di produzione. Tutto in questo totalitarismo è strumentalizzato, al pari della religione ridotta al rango di cosmetico, usato per truccare piacevolmente l’orrendo volto dello sfruttamento umano. «Non si fa una frittata senza rompere delle uova. Una società ideale lo è solo per alcuni».
L'Osservatore Romano - donne chiesa mondo, marzo 2018

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«Maria Madre della Chiesa»: la memoria liturgica voluta dal Papa per la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori come nei fedeli. Un popolo nuovo con la sua madre
Avvenire
(Stefania Falasca) «La Madre di Cristo diviene così la grande figura materna della Chiesa Madre» scriveva Gertrud Von le Fort in L’eterno femminino osservando come nel mattino di Penetecoste Maria, per la seconda volta, veniva visitata dallo Spirito Santo. Così quello che si dice della maternità dell’una si può dire della maternità dell’altra. Era il 21 novembre 1964 quando Paolo VI nel discorso conclusivo della terza sessione del Concilio proclamava, davanti a più di duemila vescovi riuniti in San Pietro, Maria come «Madre della Chiesa». E non era secondario che proprio durante quella seduta nella quale veniva promulgata la costituzione Lumen gentium – dedicata alla Chiesa e ai decreti sull’ecumenismo e sulle Chiese orientali – fosse stabilito come «l’intero popolo cristiano rendesse sempre più onore alla Madre di Dio con questo soavissimo nome»: «Madre della Chiesa», cioè di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei pastori. Ciò voleva ribadire che della Chiesa Maria è typus, è il modello. Voleva perciò proporre il suo esempio da imitare nella fede, nella docilità a qualsiasi stimolo della grazia, nel conformare fedelmente la vita ai comandamenti di Cristo e all’impulso della carità, in modo che tutti i fedeli si sentissero sempre più fermi nel seguire Cristo. «E nello stesso tempo – affermava ancora Paolo VI nel discorso – ardano di più intensa carità verso i fratelli, promuovendo l’amore ai poveri, la ricerca della giustizia e la difesa della pace, come già ammoniva il grande sant’Ambrogio». Figlia di quella Gerusalemme che è nostra madre celeste, Maria è così madre della Chiesa che siamo noi. È la madre del popolo nuovo, è la terra nella quale è stata seminata la Chiesa.
La decisione del Papa non fu affrettata, né improvvisa. Maturò dopo attenta considerazione del dibattito e lunga riflessione, perché questo titolo illumina il senso dell’intima unione di Maria con la Chiesa, dove occupa, in modo eminente e singolare il primo posto. Da allora però, nel corso di mezzo secolo (forse perché non ne era stato poi riscontrato il bisogno?), tra le tante ricorrenze nelle quali lungo l’anno liturgico si celebra la Vergine Maria non è mai stata inserita quella di Madre della Chiesa. Fino a oggi. Con un decreto della Congregazione per il Culto divino che porta la data dello scorso 11 febbraio, centosessantesimo anniversario della prima apparizione di Lourdes, il Papa ha stabilito adesso che il lunedì dopo Pentecoste la memoria di Maria Madre della Chiesa diventi obbligatoria e sia celebrata ogni anno da tutta la Chiesa. Perché? Perché come è voluto da Francesco, in perfetta continuità con il suo predecessore, «possa favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana». 
Questo è l’unico modo di stare nella Chiesa. «Altrimenti viviamo un cristianesimo fatto di idee, di programmi, senza affidamento, senza tenerezza, senza cuore – come ha detto di recente in un’omelia davanti all’icona della Salus populi romani –, e senza cuore non c’è amore e la fede rischia di diventare una bella favola di altri tempi. La Madre non è un optional, è il testamento di Cristo... Non è galateo spirituale, è un’esigenza di vita. Amarla non è poesia, è saper vivere. Perché senza Madre non possiamo essere figli. E noi, prima di tutto, siamo figli, figli amati, che hanno Dio per Padre e la Madonna per Madre... Il cuore di una madre non si vergogna delle ferite, delle debolezze dei figli, ma le vuole con sé. E la Madre di Dio e nostra sa prendere con sé, consolare, vegliare, risanare».